La mia esperienza @TEDxTorino
La storia di come sono finita a parlare di robotica e ragazzi a TEDxTorino ha qualcosa di epico. Nel senso che è epica la quantità di fortuna che mi ha portato a parlare a un evento così bello, entusiasmante, importante e chi più ne ha più ne metta.
Come è andata davvero
A Settembre mi trovavo a lavorare con un amico -grazie Davide, non ti ringrazierò mai abbastanza- su un altro progetto all’interno del co-working in cui ha sede la sua cooperativa.
Sapendo che sono profondamente dipendente dalla caffeina, ci eravamo sistemati a lavorare nella saletta comune in cui c’è la macchinetta del caffè. Mentre discutevamo animatamente su come impostare il percorso di visita di una mostra, si avvicina a noi un personaggio barbuto con la faccia simpatica che si unisce alla nostra discussione.
Risolto il problema del percorso di visita, il personaggio barbuto resta a chiacchierare con noi e dopo un po’ mi chiede se mi interesserebbe parlare a un TED. Ora… a chi non interesserebbe parlare a un TED?!
Così, convinta che Enrico -il personaggio barbuto- mi stesse prendendo in giro, mi lancio nella descrizione di cosa avrei da dire da un palco del genere. Solo che Enrico non mi stava prendendo in giro. Così 5 mesi dopo mi sono trovata su quel palco.
Scrivere il discorso, ovvero la storia infinita
Per il primo mese sono stata convinta che Enrico si fosse dimenticato di me, della nostra chiacchierata davanti al caffè e della proposta che mi aveva fatto. Alla fine, però, si è fatto sentire.
Per il secondo mese ho procrastinato. Non sapendo ancora bene di cosa parlare, ho semplicemente rimandato la stesura del discorso. Insomma, ero a quota due mesi e zero parole.
Al terzo mese mi hanno presentato il mio coach –grazie Ruggero, se siamo arrivati ad avere un discorso completo, scorrevole e forse anche interessante il merito è anche tuo– e a questo punto bisognava cominciare a lavorare davvero. Abbiamo buttato giù due idee, definito il tema e fatto un elenco puntato. Ma niente di più.
Al quarto mese ha cominciato a venirmi l’ansia. L’evento si avvicinava, ma io non avevo ancora nemmeno una frase intera del discorso. Da brava ansiosa, ho continuato a rimandare tutto agitandomi sempre di più fino a quando non ero più in grado di gestire la quantità d’ansia. A quel punto, una sera (a dire il vero, una notte) mi sono seduta davanti al computer e ho buttato giù l’incipit.
Siccome sono un’insicura senza speranze, ho inviato l’incipit a una decina di persone di cui ho una grande stima e ho aspettato feedback. Pure qua, ansia a pacchi. Comunque ‘sto incipit è stato approvato da tutti, incredibilmente.
Incipit alla mano, ho deciso che avevo già fatto un buon lavoro. Quindi mi son presa una settimana a rimirare anche le virgole di quelle tre righe che avevo scritto. Se però devi scrivere un discorso da dieci minuti, tre righe sono incredibilmente insignificanti…
Al giro di ansia incontenibile successiva ho deciso che era il momento di scrivere tutto il discorso. Tutto. In una volta sola. Ovviamente di notte. Ammetto che il discorso è soprattutto frutto dei caffè che ho preso per scriverlo fino alla fine.
A due settimane dall’evento, comunque, avevo una versione abbastanza definitiva del discorso. Restava solo quel piccolo e insignificante dettaglio di doverlo imparare a memoria e “recitarlo” in modo che non sembrasse imparato a memoria (a proposito di questo e del procrastinare oltre ogni limite, c’è questo meraviglioso articolo di Tim Urban).
Il risultato finale
Quindi, oltre a una quantità di ansia considerevole, alla fine avevo un discorso. Di cui ero (e sono ancora) soddisfatta.
Negli ultimi 20 anni il mondo in cui viviamo è cambiato radicalmente.
Sono cambiati i televisori. Siamo passati dal tubo catodico agli schermi ultrapiatti. Sono cambiati i cellulari. Addio cabine telefoniche, benvenuti smartphone. Abbiamo cambiato addirittura la moneta che usiamo. Da bambina usavo le Lire, oggi abbiamo gli Euro.Sapete però cosa non è cambiato? Non sono cambiate le nostre scuole.
Le nostre aule sono uguali a quelle di 20 anni fa. Anzi, sono uguali pure a quelle di 100 anni fa. Certo, abbiamo sostituito le lavagne con il gesso con lavagne interattive. Inviamo mail invece di scrivere sul diario e i voti li scriviamo su un tablet.
Ma gli studenti continuano a stare dietro gli stessi banchi e i professori continuano a stare dietro le stesse cattedre.
Ecco. È cambiata la tecnologia, è cambiata la società, sono cambiati i mestieri. Se il compito della scuola è formare cittadini e lavoratori del futuro, ha ancora senso insegnare come facevamo 20, anzi, 100 anni fa?
Io penso di no. Quindi ho deciso di fare qualcosa di concreto. Di mettermi d’impegno per cambiare qualcosa. Non è stata una scelta semplice, tra l’altro…
Da brava studentessa mi ero laureata con il massimo dei voti al Politecnico qui a Torino e avevo subito cominciato a lavorare in un’azienda tecnologica, occupandomi di intelligenza artificiale. Un bel contratto, un bell’ufficio e dei colleghi simpatici. Il problema è che mi sembrava di non star contribuendo in nessun modo a rendere il mondo un posto migliore. Se penso alla faccia dei miei quando ho detto loro che mi volevo licenziare da un contratto a tempo indeterminato per andare a lavorare con i ragazzi mi viene ancora male… Ma comunque…
Adesso il mio lavoro è stare tra i ragazzi. E quando dico stare tra i ragazzi, intendo proprio fisicamente tra i ragazzi. Sulla cattedra, se proprio va male, al massimo mi ci siedo. Ma è molto difficile vedermici dietro. Anzi, nelle aule in cui sto io, è proprio difficile vedere la cattedra.
Ammetto di avere un grosso vantaggio: non sono una prof. E ho un altro vantaggio enorme: io ho i robot.
Il mio lavoro è insegnare a gruppetti di ragazzi a costruire e programmare robot. Spesso si fermano al pomeriggio proprio per giocare con i robot.
Costruire e programmare un robot comunque non è uno scherzo. Tanto più che i ragazzi, che di solito hanno 12-15 anni, partono da zero. Zero competenze ingegneristiche, zero competenze di programmazione. Eppure imparano. E imparano in fretta. L’approccio è dare ai ragazzi un obiettivo da raggiungere e lasciare che ci si spacchino la testa sopra finchè non ce la fanno. Non sono abbandonati a loro stessi, sia chiaro. Possono farmi tutte le domande che vogliono. E se non so rispondere a qualcosa —e capita spesso— cerchiamo insieme su internet la risposta giusta. Però il punto è che ci devono arrivare da soli.
L’obiettivo vero, in fondo, è imparare a risolvere problemi. La costruzione e la programmazione del robot sono solo una scusa per avvicinare i ragazzi al pensiero computazionale.
PENSIERIO COMPUTAZIONALE. Non è una parolaccia. Pensiero computazionale vuol dire saper individuare un procedimento fatto di piccoli passi semplici e chiari che portano a risolvere un problema complesso. Per farvi un esempio, è un esercizio di pensiero computazionale montare un mobile Ikea, o seguire una ricetta.
I ragazzi di solito ci arrivano per tentativi, per prove ed errori. Ci arrivano facendo cose a caso, all’inizio. Poi cominciano a capire cosa stanno facendo, poi arrivano ad avere ben chiaro il processo e alla fine perfezionano anche i passaggi.
Ci arrivano sbagliando un mare di volte. Ma il bello di questo approccio è che possono sbagliare tutte le volte che vogliono. Che sbagliare non è un problema, ma fa parte del processo. L’errore non equivale al fallimento, anzi. L’errore è un modo per capire come andare avanti. L’errore è poco importante, la parte importante è la correzione dell’errore.
Quindi sbagliano, riprovano, risbagliano e continuano. Tentano e ritentano finchè non ci arrivano. Ma vi assicuro che alla fine ci arrivano sempre.
Che poi la maggior parte delle volte mi sorprendono. Quando propongo loro l’obiettivo stimo anche quanto tempo potrebbero metterci. Di solito punto su un’ora, magari anche un’ora e mezza. Capita spesso, però, che dopo una quarantina di minuti mi chiamino belli belli, con un sorriso da un orecchio all’altro, e mi dicano: “Viviana, ce l’abbiamo fatta! Vieni a vedere!”. Devo ammettere che son soddisfazioni.
Sapendo che in questo momento tutte, ma proprio tutte, le offerte di lavoro hanno fra i requisiti minimi richiesti il lavoro di squadra, la proattività, il problem solving e compagnia bella, come faccio a non pensare che questi ragazzi andranno fortissimo?
Senza dubbio il mondo del lavoro è cambiato: sono cambiati i lavori, sono cambiate le competenze richieste, sono cambiati anche i modi di lavorare. La scuola, seppur lentamente, sta cercando di adattarsi a questi cambiamenti. Non siamo noi gli unici a lavorarci sopra, insomma.
Cominciano ad apparire aule digitali, banchi di forme diverse, connessioni internet veloci e programmi di studi in cui la tecnologia ha un ruolo importante. In qualche aula i banchi sono disposti in cerchio e la cattedra è sparita. In qualche scuola i ragazzi hanno la possibilità di usare i tablet liberamente durante le lezioni. Di fatto però, stiamo ancora cercando di capire come far convivere la “vecchia” scuola con la “nuova” scuola. E ci vorrà ancora del tempo per riuscire a far sì che la convivenza sia civile… Teniamo anche conto del fatto che i nostri docenti non sono proprio giovanissimi… Quindi qualche difficoltà a interfacciarsi con la tecnologia e, in generale, con i nativi digitali ce l’hanno. Ma il processo è partito e, quindi, alla fine ce la faremo.
Sono convinta che sia nostro dovere, che sia dovere non solo della scuola ma di tutti gli adulti, preparare i ragazzi al futuro. Non basta più insegnare loro le poesie e le tabelline, dobbiamo prepararli alla società del futuro. E dobbiamo fare in modo che tutti abbiano la possibilità di stare al passo con i tempi. Tra l’altro il concetto di “tutti” non è per niente scontato.
Questa è una delle mie “classi”. Come potete vedere c’è una folla di ragazze… [Foto di una quindicina di ragazzini fra cui spiccano solo due ragazze] Ah. Già. No.
Quando i corsi sono obbligatori, la mattina, in classe, scelti dai docenti, questo approccio con i robot abbatte le differenze di genere. Ma se si tratta di dover iscrivere i propri figli a un corso pomeridiano… Beh… Il corso di danza è sicuramente più adatto a una ragazzina, no?!
Voglio raccontarvi una storia realmente accaduta in una delle mie classi. Un giorno abbiamo fatto un esperimento e abbiamo spiegato ai ragazzi che alle facoltà scientifiche e tecnologiche si iscrivono pochissime donne e che, in generale, nel mondo della scienza e della tecnologia non c’è una folla di donne.
Questo è un dato reale. Le donne nelle facoltà scientifiche sono poche davvero. Secondo i dati Istat solo il 30% degli iscritti a facoltà del gruppo scientifico sono donne. E se si va a vedere l’Ingegneria la percentuale cala ancora fino al 22%. E la mia esperienza mi assicura che le statistiche sono corrette. Mi è capitato di dare esami in cui ero l’unica donna in aula.
Comunque, tornando all’esperimento. Dunque, abbiamo detto loro che le donne che studiano le scienze sono poche. A parte le espressioni stupite e perplesse di tutti i ragazzini, come se stessimo raccontando loro un mare di stupidaggini, ci ha stupito la risposta che ci ha dato uno di loro, Matteo. Matteo ci ha risposto, con tutta l’innocenza del mondo, testuali parole: “Va beh, saranno anche poche, ma di sicuro sono le migliori”.
Ecco. Voglio credere che se ce la fa Matteo, di tredici anni, a dare fiducia alle donne, ce la possiamo fare tutti. Insomma, che c’è speranza.
Ah, tra l’altro. Consiglio spassionato. Guardate che robot, Lego e puzzle si possono regalare anche alle bambine. Anzi. Fatemi un favore. Più Lego e meno Barbie. Non perchè io ce l’abbia con le bambole, eh. Però proviamo a dare a ste bambine un’idea di parità anche quando hanno 5 anni. Così non scarteranno a priori il corso di robotica a 12 anni, una facoltà scientifica a 18 o un lavoro nella tecnologia alla mia età.
Viviana Laura Pinto, TEDxTorino, Febbraio 2019
L’evento più figo della mia vita
Voglio spendere ancora qualche parola sulla giornata dell’evento.
Non avevo mai partecipato a un TEDx (e tanto meno a un TED) e non sapevo bene cosa aspettarmi dall’evento, ma in ogni caso la giornata è andata ben oltre le mie più rosee speranze.
Nonostante la quantità d’ansia che mi ha sommersa dal momento in cui ho capito che avrei dovuto davvero parlare davanti ad un pubblico (ampio e, soprattutto, pagante), tutto è magicamente sparito nel momento in cui il primo ospite ha messo piede nella sala. A quel punto è rimasta l’eccitazione e la voglia di raccontare a tutti il discorso che avevo preparato.
La mattinata è stata un susseguirsi di momenti di panico, prove del discorso, momenti di trucco e parrucco e interviste varie. La realtà è che è passata in un attimo. Un momento prima stavo camminando verso la location, un momento dopo toccava a me salire sul palco.
La vista del pubblico dal palco è stata meravigliosa. Non essere accecata dalle luci e avere il pubblico molto, molto, molto vicino è stata una fortuna incredibile. Vedere la gente che annuisce mentre parli, sorride e ride alle battute, mette una carica incredibile.
Gli speaker che sono venuti dopo di me, poi, sono stati fantastici. È stato un piacere ascoltarli. Mi scuso con quelli che sono venuti prima, stavo ancora ripassando e cercando di scaricare l’ansia, giuro che recupererò i vostri talk appena i video saranno disponibili.
Il momento che più mi ha riempito la giornata (e forse mi azzarderei a dire la vita fino ad ora) è stato subito dopo la fine dei talk. Una folla di persone mi ha accerchiata per chiacchierare, fare domane, confrontarsi con me. È stato incredibile. Bellissimo. E super stimolante.
Quindi grazie. Grazie davvero a tutti. Grazie a chi mi ha permesso di parlare da quel palco, grazie a chi mi ha aiutata a preparare il discorso, grazie a chi è stato ad ascoltarmi. Grazie a tutti per questa esperienza incredibile. E se siete amanti dei ringraziamenti, qui trovate quelli che ho scritto a caldo, il giorno dopo l’evento.